martedì 1 maggio 2012

Arte astratta con firma


"Grandir, c'est se séparer" F. Dolto

Una delle mie più ricorrenti riflessioni a ruota sciolta sul tema della genitorialità, consiste nel pensare che l'amore verso i figli è in sé il più contraddittorio degli amori. Quando si ama qualcuno, un marito, un amante,  un amico, si desidera che questa persona ci stia vicino il più a lungo possibile, idealmente per sempre, e si vive un'eventuale rottura come qualcosa di molto doloroso che segna la fine dell'amore stesso.
Al contrario, l'amore per un figlio è proprio tutto ciò che ci porta a renderlo autonomo, in grado di fare da solo, fino al punto di non avere più bisogno di noi e di abbandonarci. Si ama cioè un figlio per lasciarlo libero e perché divenga altro, indipendente da noi. Siamo piuttosto noi genitori ad avere bisogno dei figli per tutta la vita ed è per questo che a volte facciamo fatica a lasciargli prendere il volo.
Alcune volte, noi madri tendiamo a voler riprodurre lo stato di grazia della gravidanza, in cui al nostro bambino non mancava nulla, creandogli attorno un utero virtuale che si estende all'infinito (Aldo Naouri). A questi bambini superprotetti, pero', non si dà la possibilità di crescere. La fusione con la madre impedisce loro di imparare a sbrigarsela da soli e ad avere fiducia nelle proprie capacità. Il rischio è di farne degli adulti infelici e incapaci di prendere il loro posto nella società (Boris Cyrulnik).
Da qui l'importanza fondamentale, secondo me, di fare del proprio ruolo di genitore un percorso affettivo verso il distacco.